Teatrino Foresto

"Anche nei tempi bui si canterà? Anche si canterà. Dei tempi bui" B. Brecht

Sbaglieranza

Ho cominciato la mia formazione a teatro a scuola, nei corsi pomeridiani, avevo 14 anni. Fui Margherita prima, poi Mefistofele nel Faust di Goethe, una baccante hippie che declamava versi da Jukebox all’Idrogeno di Ginsberg e Isabella nell’Edoardo II di Marlowe. Quel modo di fare teatro, che per me era la norma, consisteva nel leggere insieme il copione, discutere della psicologia del personaggio ed eseguire le azioni che il/la regista aveva pensato per quella determinata scena. Toccava “entrare nel personaggio” e toccava che ognuno/a trovasse il suo modo.

Pareva non ci fosse tecnica da acquisire per gli attori e le attrici, bisognava “sentire” e c’era chi poteva farlo e chi no. A seconda dei registi che si affacciarono a scuola io “potevo” quindi non mi feci molte domande. Entravo in scena tremando e ne uscivo piangendo, senza voce perchè non sapevo usarla e urlavo, con l’ansia di non sapere dove avrei trovato questo o quell’oggetto tra una replica e un’altra ma andava tutto bene, ero brava, la protagonista.

In quel periodo, sapendo del mio amore per il teatro un’amica mi regalò un libro: Teatro. Solitudine Mestiere Rivolta di Eugenio Barba. Uno dei libri che ho più letto nella vita. Continuavo a fare quel teatro lì ma cominciavo a nutrire dei dubbi. Solo l’amore per il gruppo mi salvò dal mollare tutto. Feci bene, vincemmo un premio, il mio ego trionfò, ne avevo bisogno.

Uscita da scuola cominciai la mia carriera di stagista che durò anni. Facevo un paio di lavori al giorno per potermi permettere di partecipare a questi laboratori con attori, attrici dell’Odin Teatret o che provenivano da quella tradizione lì.

L’impatto con questa nuova modalità di fare teatro fu un colpo duro per il mio ego: non ero brava. Prima di entrare nel personaggio, cosa che amavo e secondo me mi riusciva meglio, bisognava camminare. Non sapevo camminare né che fosse così importante, e poi quando era certa che avessimo, a quel punto, camminato abbastanza e potessimo finalmente parlare del personaggio, non toccava più “entrare” né “sentire”, non c’era più: tu puoi.

Le parole d’ordine erano cambiate. Ogni certezza su quello che era il teatro cadde. Continuai e col tempo mi assestai in questa nuova realtà del fare. Un gran silenzio, non si parlava più, si cantava! molta fatica che amavo e odiavo ma soprattutto la mancanza di quel “sentire”, mi fecero provare la sensazione di essere una straniera, in quella che avevo considerato, prima, la mia casa. Molte insicurezze mi bloccavano e mi sembrava di aver perso la mia connessione col teatro.

Andai comunque avanti su quella strada, non ne potevo fare a meno.

Conobbi Ana Woolf partecipando ad un suo laboratorio, devo a lei il ritrovamento di una nuova familiarità con il teatro. I suoi laboratori erano sì rigorosi, faticosi, provanti anche emotivamente ma quel clima rarefatto e rigido di lavoro che avevo incontrato, con lei diventava caldo, accogliente. Le ferite dell’ego si consolarono rapidamente di fronte alla bellezza di poter entrare in contatto con la dimensione corale. Insieme agli altri/e accadevano cose decisamente più entusiasmanti.

Ana mi ha insegnato a concedermi la possibilità di procedere per tentativi, abbandonando l’idea di performatività, di sbagliare in pace, tranquillamente, con altri/e che allo stesso modo procedevano a tentoni. Credo che il passaggio di cui le sono più grata, al di là di alcuni esercizi, sia stata la sua modalità di osservazione del lavoro che ho cercato e cerco ancora di fare mia.

Si aggirava con gli occhi ben aperti, tutta bene aperta! a cercare nel lavoro di tutti/e qualcosa di bello e lo trovava, o ci indirizzava perchè prendesse forma, individualmente e collettivamente. Stava lì, una presenza certa che non interrompeva neanche le sperimentazioni più sconclusionate, suggeriva con gentilezza e ci accompagnava con un’energia potente e calda anche nei luoghi più bui che lavorando attraversavamo.

Questa osservazione nel “sì”, chiaramente più impegnativa di quella che procede con il “no”, è la mia stella del nord quando conduco ora. Prevede di spostare il punto di vista sull’errore. Un’ode alla Sbaglieranza.

In contesto di benvedenza, si chiama sbaglieranza la presa di posizione di una compagna a voler agire pur non essendo sicura che vada bene. La sbaglieranza si pratica in terreno scivoloso, quando ogni azione potrebbe esporre la sbaglierante a critiche più o meno forti, più o meno durature. La sbaglieranza fa riferimento ad un’azione fatta come tentativo sperimentale di creare altri mondi, di fare micro politiche che seguano il processo di decostruzione di una realtà data. La possibilità di diventare sbaglierante è direttamente proporzionale alla benvedenza delle compagne e ad una presa di responsabilità collettiva che parte dalla considerazione che “chi fa sbaglia”. La sbaglieranza si pratica a scale, in particolare a cerchi concentrici. Si chiamano cerchi di fiducia quelli costruiti in uno spazio benvedente. Si dice che sia questo il terreno più propizio alla sbaglieranza, nel momento in cui la sbaglierante è sempre in postura di messa in discussione di sé individuale e collettiva»

(Wittig fan clubba (2018), Brugliona, Campo Politico Femminista Agape, 21-28 luglio.)

Laboratorio tenuto da Rachele Borghi, anche nota al testo in: Decolonialità e Privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo. Rachele Borghi (2020)

VP

Continua

Una replica a “Sbaglieranza”

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